LA MINIERA DI CIVERON

Monte Civeron, m. 1034. Malga Civeron si trova invece a una altitudine che varia fra gli 850 e 870 metri.
Questa bella località, che fa parte del co­mune di Castelnovo, a ponente viene delimi­tata dalla Val Prosiglia, a levante giunge alla Coalba.
Alla Coalba c'è la miniera di carbon fossile (qualità lignite), da molti anni però inattiva. Il periodo di sfruttamento di questa mi­niera va dal 1916 a tre anni circa dopo la prima guerra mondiale. Le entrate alla miniera erano due, così contrassegnate: la n. 5 e la n 7. Nel 1918, subito dopo la fine della guerra, a Civeron lavoravano 300 prigionieri tede­schi naturalmente con maestranze e capi ita­liani accantonati nei baraccamenti che in precedenza erano serviti alle truppe per il fronte dell'Ortigara.
Il trasporto del carbone veniva fatto per mezzo di una teleferica che partiva dalla Coalba e giungeva sul principio di malga Civeron dove aveva l'impianto motore. Qui c'era una stazione teleferica. Il carbone veniva trasbordato su un altro tronco che lungo il fianco del monte scendeva alla Belisenga.
Da detta stazione un altro tronco saliva a vai Caldiera; esso, giunto nei roccioni sotto­stanti lo Stol del Prete, faceva capo in una baracca dove c'erano i motori; da qui altre minori teleferiche raggiungevano, per i rifornimenti, più alte quote.
Naturalmente, l'impianto che dalla stazione saliva, dopo il 1918 era rimasto completa­mente abbandonato. Stando nei pressi di Olle si vedeva il percorso segnato dai tralicci specie nel prato di Santin e ricordo si udiva molto bene il metallico « cran cran » delle carrucole al loro passaggio sui ganci di sostegno ai cavi portanti.
Giunto alla base, il carbone veniva scaricato dai cassoncini nei carrelli.
Alla Belisenga lavoravano 200 prigionieri fra ungheresi e slavi. Il grande impianto motore (che funzionava a benzina) era coman­dato dal capo meccanico, un ungherese di nome Walter Alcuni metri più a valle del­l'impianto motore c'era una costruzione in cemento armato alta 7 metri, per metà sopra il livello del terreno e per metà sotto (ancora a tutt'oggi intatta).
Lì dall'alto, entravano i due grossi cavi portanti tenuti tesi all'interno da due piom­bi del peso di 200 quintali l'uno. Anche qui gli uomini erano accantonati in baracche. Due grandi tunnel nel monte servivano per deposito materiali e munizioni. Sull'argine destro del torrente Fumola c'era un grande cantiere dove lavoravano falegnami, fabbri e l'arrotino, con attrezzature che funzionavano a forza d'acqua.
Da questa base, lungo l'argine scendeva un doppio binario con un rettilineo di 420 me­tri fino al ponte del Fumola.
Otto carrelli carichi per volta scendevano e otto vuoti salivano, azionati da un cavo a congegno motore. Al ponte, i carrelli, due a due, venivano presi in consegna dagli uomini; poi, seguendo prima via Pozzi, attraversavano Olle e scendevano verso Borgo prendendo in ultimo tratto via dietro le Mura. Prima del ponte della ferrovia della Valsugana, sulla sinistra, i carrelli passavano su una pensilina e da lì venivano scaricati direttamente nei vagoni merci. I carrelli vuo­ti venivano poi trainati al punto di partenza da muli.
Ricordo qui un fatto.
Erano gli ultimi giorni del mese di marzo 1920 e nelle campagne era cominciato il lavoro. In un vigneto della località fra il paese e il Fumola mio padre stava potando. Io allora avevo 9 anni, mio fratello minore 7. Stavamo giocando sul limite del campo quan­do il padre ci ordinò di andare a prendere una bottiglia d'acqua.
A pochi minuti di strada c'erano due case, in una, quella di sotto (casa Tomio), pren­demmo l'acqua e ritornammo in strada. Nel frattempo erano giunti due carrelli e stava­no lì frenati. I due uomini erano entrati nell'altra casa, nella quale la padrona, signorina Giuseppina Giacometti, aveva negozio con vendita anche di fiaschi di vino.
Visti incustoditi i carrelli, noi prontamente saltammo sul predellino e assieme impugnammo la traversina del freno. La strada era in pendenza; i carrelli partirono subito. Fatti diversi metri io saltai a terra e gridai a mio fratello: «Scendi, scendi!
Ma lui, imperterrito, allentò il freno al completo. Ora la pendenza si faceva più ac­centuata, la velocità aumentava. I carrelli entrarono fra le prime case del paese a paz­za corsa. Io non li vedevo più e misi a correre.
All'altezza di casa Bocher (oggi casa Faoro) dove la pendenza finiva, il binario faceva una mezza curva a sinistra. I carrelli, a quel punto, come due bolidi deragliarono a destra con un fragore di ferraglia. Tutte e quattro le ruote di destra, abbattendosi sul grosso­lano selciato, si frantumarono. Pézzi di ghisa e frammiste le lucide sfere dei mozzi erano cosparse a distanza sulla strada. Mio fratello rimase aggrappato alla traver­sina del freno fino a quando tutto fu fermo. Il ribaltamento fu evitato dal basso para­urti che i carrelli avevano tutt'intorno. In quel caso, l'occupante sarebbe stato scaraventato come un fuscello contro l'alto muro che allora separava la strada dall'orto della canonica.
Mio fratello mi venne vicino muto e pal­lido, ma sano. Non scappammo; assieme ad altra gente, accorsa, guardavamo il malanno da noi combinato. Ben presto giunsero di corsa gli addetti ai carrelli. Erano due giovani prigionieri ungheresi sui 24-25 anni, certi Falker e Kalapaci che io un po' conoscevo. La preoccupazione scomparve subito dai loro Volti quando videro che non era suc­cessa nessuna disgrazia. Difatti, se qualche persona fosse stata travolta, per loro sareb­bero stati guai certo peggiori che per noi ragazzi, per aver lasciato i carrelli incustoditi. Senza per nulla imprecare, si misero a sgomberare la strada Parlavano fra di loro e ogni tanto ridevano. Non si capiva, ma dal loro atteggiamento forse si saranno au­gurati che si polverizzasse tutto: carrelli, rotaie e carbone, perché la guerra era finita già da un anno e mezzo e loro erano ancora obbligati a un duro lavoro e senza profitto, lontani dalla famiglia e dalla Patria.

Da “Voci Amiche”, Febbraio, Marzo e Giugno - Luglio 1969

CAMILLO ANDRIOLLO